«Che cosa vuol dire addomesticare?»
«E’ una cosa da molto dimenticata. Vuol dire “creare legami!”»
«Creare legami?»
«Certo», disse la volpe, «Tu, fino a ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo».
Cosi il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina:
«Ah!» disse la volpe, «…piangerò».
«La colpa è tua», disse il piccolo principe «io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…»
«E’ vero», disse la volpe.
«Ma piangerai!», disse il piccolo principe.
«E’ certo», disse la volpe. (Antoine de Saint-Exupery, Il piccolo principe)
La necessità di avere accanto persone che siano in grado di prendersi cura di noi porta con sé anche la paura dell’abbandono. E’ un tema, questo, che ci tocca nel profondo perché nega l’appagamento di un bisogno fondamentale per l’uomo: il bisogno di stare all’interno di una relazione affettiva. E’ un bisogno dal quale non possiamo prescindere perché fa parte del nostro patrimonio genetico. Per crescere e svilupparsi, l’essere umano ha bisogno di poter contare sin dai primi giorni di vita sui propri simili, i quali diventano un vero e proprio punto di riferimento. Generalmente sono i genitori o comunque persone che si occupano della sua crescita interiore e che sono in grado di trasmettere affetto e sicurezza. La paura dell’abbandono è, dunque, primordiale e tende a manifestarsi nelle situazioni in cui un atteggiamento viene interpretato e percepito come assenza di contatto emotivo. Non scatta, perciò, solamente in caso di assenza reale, fisica. Sono sempre due i fattori da esaminare: l’ambiente relazionale e la biologia. Non necessariamente un disturbo di base si sviluppa in maniera patologica. Per esempio, se la nostra infanzia è caratterizzata da relazioni affettive sicure, anche se abbiamo una predisposizione biologica non necessariamente sviluppiamo la trappola dell’abbandono. In caso contrario se cresciamo in ambienti instabili emotivamente potremmo sviluppare questa paura anche se non mostriamo nessuna predisposizione. L’ambiente circostante ci plasma e favorisce o meno il manifestarsi (o l’accelerarsi) di un problema o di una predisposizione genetica. Cercare degli spazi culturali (ma anche ludici) dove poter condividere passioni, interessi e sviluppare quell’empatia che ci è venuta a mancare fin dalle origini è determinante per recuperare una sensazione di interezza, grazie alla plasticità del cervello che è in grado di ristrutturarsi creando continuamente nuovi percorsi neurali. Lo yoga e la meditazione non sono pratiche fine a se stesse, sono mezzi che creano scambi, condivisione, empatia, unione d’intenti, tutte cose che ci aiutano a sentirci uguali ai nostri simili e che ci fanno sentire accettati e integrati in un nucleo. Noi ci siamo …
surya