Nella mitologia greca il vaso di Pandora, la Speranza, che è l’ultima dea, restituisce agli uomini un mondo accettabile e più vivibile. Oggi, nel mondo delle neuroscienze, la speranza viene studiata per i suoi effetti terapeutici.
Il Professor Fabrizio Benedetti, neuroscienziato dell’Università di Torino, è tra i massimi conoscitori del placebo e ne ha studiato l’effetto sui pazienti. Egli ha scoperto che la fiducia, l’aspettativa, la speranza, muovono una quantità enorme di molecole nel cervello e che questa componente psicologica usa gli stessi meccanismi dei medicinali.
In pratica, quando parliamo di un’iniezione di fiducia non siamo poi così lontani dalla realtà. Ma com’è possibile che speranza e fiducia agiscano sul cervello di una persona sofferente? Ci sono principalmente due motivi: il primo è che aspettarsi un giovamento riduce l’ansia, la quale è strettamente collegata al dolore: maggiore è l’ansia, maggiore è il dolore. Una persona meno ansiosa avverte il dolore con minore intensità. L’aspettativa di un risvolto positivo, inoltre, mette in moto anche i meccanismi cerebrali di “ricompensa”, cioè quei meccanismi che ci permettono di anticipare un evento piacevole, come una ricompensa in cibo o denaro, per esempio.
Il secondo riguarda un meccanismo di apprendimento: La continua associazione fra l’ambiente che ruota intorno al paziente (per esempio, il personale medico o una siringa) e il contenuto della siringa stessa, quindi il principio farmacologico attivo, induce una risposta condizionata. Questo significa che dopo tante associazioni, la sola vista della siringa o del personale medico sarà sufficiente a indurre la riduzione del sintomo. È stato dimostrato che l’aspettativa svolge un ruolo importante nei processi coscienti (ad esempio il dolore), mentre l’apprendimento è coinvolto nei processi non coscienti (ad esempio, le risposte immunitarie).
Nel circuito neuronale della speranza si attivano delle aree del cervello che producono sostanze simili all’oppio e alla morfina e che, quindi, producono sollievo. Il cervello umano è una vera e propria farmacia dove un insieme di molecole si muovono, attivate dalla relazione fra individui. Se io ho fiducia in qualcuno e nutro la speranza di sentirmi meglio, il mio cervello inizia a produrre antidolorifici naturali e il dolore diminuisce».
Le relazioni rivestono un ruolo fondamentale in tutto ciò: se la persona che soffre vede in chi lo assiste un amico ritrova pace, le angosce vengono mitigate e si riaccende il lume della speranza. Le parole e il comportamento di chi si prende cura dei malati attivano gli stessi meccanismi dei farmaci, poiché hanno un grande impatto sui circuiti nervosi del paziente.
Ovviamente, lo stesso discorso vale anche per le parole negative, perché esse mettono la persona in uno stato di ansia anticipatoria che servirà per prepararsi ad affrontare una situazione. Ci siamo mai chiesti perché al solo rumore del trapano del dentista percepiamo una sensazione di dolore? Accade perché nel nostro cervello viene attivata una molecola, la colecistochinina, il cui compito è quello di amplificare il dolore.
Attenzione, dunque, a come parliamo, non solo agli altri, ma anche a noi stessi. “Sono solo parole?” No…sono farmaci…
Surya