Nel 1954 Dorothy Martin, una casalinga del Michigan a capo di una setta, sostenne di essere in contatto con una congregazione di extraterrestri, con cui comunicava per mezzo della scrittura automatica. Rivelò che un’imminente catastrofe avrebbe devastato la Terra, risparmiando tuttavia coloro che avessero creduto davvero in quel messaggio. Molta gente sorrise a questa notizia, ma non Leon Festinger, all’epoca ricercatore presso l’università del Minnesota, che vi scorse un’opportunità irripetibile per studiare a fondo quello che poi divenne uno dei concetti fondamentali della psicologia sociale: la dissonanza cognitiva.
Lo studioso si infiltrò tra i proseliti di Martin, persone che avevano fatto in nome della setta alcune scelte drastiche, quali l’abbandono della famiglia, del lavoro e la cessione di tutti i propri beni. Confondendosi nel gruppo, Festinger intendeva osservarne il comportamento a mano a mano che l’apocalisse si avvicinava, per vedere come avrebbe reagito una volta che la profezia si fosse rivelata sbagliata. Quando arrivò l’ora X, che era stata prevista per la mezzanotte del 21 dicembre 1954, nessun cataclisma si infranse rovinosamente, né si vide l’ombra di alcuna astronave scendere dal cielo per prelevare la profetessa e i suoi adepti. Tuttavia, davanti alla moltitudine di persone deluse e sconcertate riunitasi nella sua casa, Martin non si scompose e affermò solennemente che gli alieni le avevano comunicato che il pianeta Terra era stato salvato dalla distruzione grazie alle sue preghiere e a quelle dei suoi proseliti. Di fronte a questo fallimento annunciato, Festinger aveva ipotizzato una reazione ben precisa tra i discepoli di Martin: invece di abbandonare le loro false credenze sui poteri sovrannaturali della profetessa, avrebbero preferito ignorare la realtà dei fatti, cercando in qualche modo di “ridefinire”, di razionalizzare, quanto accaduto. Fu proprio quello che avvenne: dopo un iniziale smarrimento, avendo troppo da perdere nel riconoscere l’errore, le persone si convinsero di aver salvato il mondo con la loro fede e, invece di abbandonare la setta, rinforzarono le loro convinzioni e incominciarono a fare proselitismo. Quando ci scontriamo con eventi o evidenze che sono in contrasto con le nostre credenze più profonde, siamo difatti più inclini a manipolarli, anche generando idee bizzarre, piuttosto che arrenderci alla verità dei fatti e cambiare opinione. Questo accade perché Il nostro cervello non è un ripetitore ma un elaboratore, quindi è alla continua ricerca di indicatori che possano dare la giusta lettura a ciò che accade. L’uomo è un “ricercatore di coerenza”, ovvero tende in linea generale ad essere coerente con sé stesso nel modo di pensare e di agire. La presenza di due o più idee o azioni contraddittorie o incompatibili crea invece uno stato di ansia o tensione, che siamo determinati a ridurre per ritornare all’equilibrio iniziale. Inoltre, il cervello attribuisce significato all’esperienza e per farlo deve attingere ai significati che già possiede. Uno dei significati più profondi e radicati nella specie umana è la ricerca della verità, per cui il cervello, che è come un radar, continua a cercare la migliore approssimazione alla realtà e a ricostruirne le parti mancanti. Per esempio, se noi ammiriamo moltissimo un personaggio pubblico e ne parliamo con tutti i nostri amici, magari invitandoli anche a delle sue conferenze, e ad un certo punto veniamo a sapere che la persona in oggetto ha commesso atti riprovevoli noi entriamo in uno stato di dissonanza e proveremo in tutti i modi a giustificare, a diminuire l’impatto delle sue malefatte. Dobbiamo giustificare il nostro comportamento, non solo con noi stessi, ma anche davanti agli altri. Ecco perché alcune persone, pur trovandosi davanti alle prove più evidenti e alla logica più ferrea, non si spostano dalle loro idee. Più le convinzioni sono forti, più forte è la dissonanza cognitiva e, di conseguenza, la negazione della realtà.