1) Aggrapparsi al pensiero “io” finché colui che immagina di essere separato da Dio scompare.
2) Abbandonare completamente tutta la responsabilità della propria vita a Dio o al Sé. Affinché tale autoabbandono sia efficace, non si devono avere volontà o desideri propri e si deve essere completamente liberi dall’idea che vi sia una persona individuale capace di agire indipendentemente da Dio.
Il primo metodo è chiaramente l’inchiesta sul Sé mascherata sotto in diverso nome. Sri Ramana uguagliava spesso le pratiche dell’abbandono e dell’indagine dicendo che erano nomi diversi dello stesso processo, o che erano i sue soli mezzi efficaci con i quali si potesse raggiungere la realizzazione del Sé. Questo è del tutto coerente con la sua opinione secondo la quale qualunque pratica che coinvolgesse la consapevolezza del pensiero “io” era un percorso valido e diretto verso il Sé, laddove tutte le pratiche che non comportavano questa consapevolezza non lo erano. Questa insistenza sulla consapevolezza soggettiva dell’”io” come unico mezzo per raggiungere il Sé caratterizzava la sua attitudine verso le pratiche della devozione (‘bhakti’) e dell’adorazione, che sono solitamente associate all’abbandono a Dio. Egli non scoraggiava mai i suoi devoti dal seguire tali pratiche, ma indicava che ogni relazione con Dio (devoto, adoratore, servo, eccetera) era illusoria, poiché esiste soltanto Dio. La vera devozione, diceva, è quella di rimanere come si è realmente, nello stato d’essere in cui tutte le idee sulle relazioni con Dio hanno cessato di esistere.
Il secondo metodo, l’abbandonare a Dio la responsabilità della propria vita, è anch’esso in relazione all’indagine sul Sé perché mira a eliminare il pensiero “io” separandolo dagli oggetti e dalle azioni con cui si identifica costantemente. Nel seguire questa pratica ci dovrebbe essere una costante consapevolezza che non c’è un “io” individuale che agisce o desidera, solo il Sé esiste e non c’è nulla di separato dal Sé in grado di agire in modo indipendente. Seguendo questa pratica, ogni volta che si diventa consapevoli di assumersi la responsabilità dei pensieri e delle azioni – per esempio “io voglio” o “io sto facendo questo” – si dovrebbe cercare di ritirare la mente dai suoi contatti esterni e fissarla nel Sé. Questo è analogo al trasferimento dell’attenzione che avviene nell’autoindagine quando si realizza che si è persa l’autoattenzione. In entrambi i casi lo scopo è isolare il pensiero “io” e farlo scomparire nella sua sorgente.
Sri Ramana stesso ammetteva che il completo e spontaneo abbandono dell’”io” con questo metodo era una meta irraggiungibile per molte persone, così egli a volte consigliava ai suoi seguaci di intraprendere degli esercizi preliminari che avrebbero coltivato la loro devozione e controllato le loro menti. La maggior parte di queste pratiche comportava il pensare o il meditare su Dio o sul ‘guru’ ripetendone costantemente il nome (‘japa’) o visualizzandone la forma. Egli diceva ai suoi devoti che se veniva fatto regolarmente con amore e devozione, allora la mete si sarebbe assorbita senza sforzo nell’oggetto della meditazione. Una volta che ciò è stato raggiunto, il completo abbandono diventa molto più facile. La consapevolezza costante di Dio impedisce alla mente di identificarsi con altri oggetti e aumenta la convinzione che esiste Dio soltanto. Produce anche un reciproco flusso di potere, o grazia, dal Sé che indebolisce la presa del pensiero “io” e distrugge le ‘vasana’ che perpetuano e rafforzano la sua esistenza. Alla fine il pensiero “io” è ridotto a proporzioni minime e con un po’ di autoattenzione può essere fatto sprofondare temporaneamente nel Cuore.
Come con l’indagine sul Sé, la realizzazione finale è provocata automaticamente dal potere del Sé. Quando tutte le tendenze esteriorizzanti della mente sono state dissolte nelle ripetute esperienze dell’essere, il Sé distrugge il residuo pensiero “io” così completamente che non sorgerà mai più. Questa distruzione finale dell’”io” avviene solo se l’abbandono è stato completamente disinteressato. Se è fatto col desiderio della grazia e della realizzazione del Sé, non può mai essere più di un parziale abbandono, una transazione d’affari in cui il pensiero “io” compie uno sforzo con l’aspettativa di ricevere una ricompensa.
D: Che cos’è l’abbandono incondizionato?
R: Se ci si abbandona non ci sarà nessuno a porre domande o a essere pensato. O i pensieri vengono eliminati aggrappandosi al pensiero radice “io”, oppure ci si abbandona senza condizioni al potere supremo. Questi sono i due soli modi per raggiungere la realizzazione.
D: L’abbandono totale o completo non richiede che non rimanga neppure il desiderio della liberazione o di Dio?
R: Il completo abbandono richiede che tu non abbia un tuo proprio desiderio. Devi essere soddisfatto di qualunque cosa Dio ti dà e ciò significa non avere desideri propri.
D: Ora che sono soddisfatto su questo punto, desidero sapere attraverso quali passi posso raggiungere l’abbandono.
R: Ci sono due modi. Uno è cercare la sorgente dell’”io” e fondersi in quella sorgente. L’altro è sentire: “Io sono impotente, Dio solo è onnipotente e non ho altra via di salvezza se non affidarmi completamente a Lui”. Attraverso questo metodo si sviluppa gradualmente la convinzione che Dio solo esiste e che l’ego non conta nulla. Entrambi i metodi conducono alla stessa meta. Il completo abbandono è un altro nome di ‘jnana’ o liberazione.
D: Trovo che il metodo dell’abbandono sia più facile. Ho intenzione di adottare questo sentiero.
R: Attraverso qualunque sentiero tu proceda, dovrai perderti nell’Uno. L’abbandono è completo quando raggiungi lo stadio “Tu sei tutto” e “Sia fatta la Tua volontà”. Lo stato non è differente da ‘jnana’. In ‘soham’ (l’affermazione “io sono lui”) c’è ‘dvaita’ (dualismo). Nell’abbandono c’è ‘advaita’ (non dualismo). Nella realtà non ci sono né ‘dvaita’ né ‘advaita’, ma ciò che è. L’abbandono sembra facile perché le persone immaginano che, una volta che dicono con le labbra “Mi abbandono” e pongono i loro fardelli sul loro Signore, esse possono essere libere e fare ciò che desiderano. Ma il fatto è che non puoi avere attrazioni e repulsioni dopo il tuo abbandono; la tua volontà dovrebbe diventare assolutamente inesistente, venendo sostituita dalla volontà del Signore. La morte dell’ego in questo modo procura uno stato che non è diverso da ‘jnana’. Così, attraverso qualunque sentiero tu possa procedere, devi arrivare a ‘jnana’ o unità.
D: Qual è il modo migliore per uccidere l’ego?
R: Il modo migliore è quello che a ogni persona sembra più facile o che l’attira di più. Tutte le vie sono ugualmente buone, dato che conducono alla stessa meta, che è la fusione dell’ego nel Sé. Ciò che il ‘bhakta’ (devoto) chiama abbandono, dall’uomo che pratica ‘vichara’ viene chiamato ‘jnana’. Entrambi stanno soltanto cercando di ricondurre l’ego alla sorgente da cui è sorto e di farvelo immergere.
D: La grazia non può affrettare questa capacità in un cercatore?
R: Lascia questo a Dio e abbandonati senza riserva. Una delle due cose deve essere fatta. O ti abbandoni perché ammetti la tua incapacità e chiedi che un potere più alto ti aiuti, oppure indaga la causa della miseria andando alla sorgente e immergendoti nel Sé. In entrambi i modi sarai libero dalla miseria. Dio non abbandona mai chi si è abbandonato.
D: Attraverso il costante desiderio di abbandonarmi spero che venga sperimentato un aumento della grazia.
R: Abbandonati una volta per tutte e falla finita col desiderio. Finché si trattiene il senso di essere colui che agisce, ci sarà desiderio. Quello è anche la personalità. Se quello se ne va, il Sé viene scoperto risplendere puro. La schiavitù è il senso di essere chi agisce, non le azioni stesse. “Sii calmo e sappi che io sono Dio”. Qui la calma è totale abbandono senza ombra di individualità. La calma prevarrà e non ci sarà agitazione mentale. L’agitazione mentale è la causa del desiderio, del senso di essere chi agisce e della personalità. Se ciò viene arrestato c’è la quiete. Là “conoscere” significa “essere”. Non è conoscenza relativa che implica la triade conoscenza, conoscitore e conosciuto.
D: Può essere d’aiuto il pensiero “Io sono Dio” o “Io sono l’essere supremo”?
R: ”Io sono quello che sono”. “Io sono” è Dio, non il pensare “Io sono Dio”. Realizza l’”Io sono” e non pensare “Io sono”. E’ detto: “Sappi che io sono Dio” e non “Pensa che io sono Dio”. Tutti i discorsi sull’abbandono sono come pezzetti di zucchero presi da un’immagine di zucchero del Signore Ganesh per offrirli come ‘naivedya’ (offerta di cibo) allo stesso Signore Ganesh. Dici di offrire a Dio corpo, anima e possessi. Sono forse tuoi perché tu possa offrirli? Tutt’al più potrai dire solamente: “Finora ho immaginato falsamente che tutte queste cose che sono tue fossero mie. Ora realizzo che sono tue. Non agirò più come fossero mie.” Questa conoscenza secondo cui non c’è altro se non Dio o il Sé, che “io” e “mio” non esistono e che esiste solo il Sé, è ‘jnana’. Perciò non c’è differenza tra ‘bhakti’ e ‘jnana’. ‘Bhakti’ è ‘jnana mata’ o la madre di ‘jnana’.
D: Da uomini mondani quali siamo, proviamo una forma o l’altra di angoscia e non sappiamo come uscirne. Preghiamo Dio e tuttavia non siamo soddisfatti. Come possiamo fare?
R: Confidare in Dio.
D: Ci abbandoniamo, tuttavia non c’è aiuto.
R: Sì. Se vi siete abbandonati, dovete essere in grado di conformarvi al volere di Dio e non lagnarvi di ciò che può non piacervi. Le cose possono risultare diverse da come possono sembrare in apparenza. Il dolore spesso conduce gli uomini alla fede in Dio.
D: Ma noi siamo uomini mondani. C’è la moglie, ci sono i figli, parenti e amici. Non possiamo ignorare la loro esistenza e affidarci al volere divino senza trattenere un po’ della nostra personalità.
R: Ciò significa che non vi siete abbandonati come avete dichiarato. Dovete solo confidare in Dio. Abbandonatevi a Lui e conformatevi alla Sua volontà, sia che Egli appaia o svanisca. Aspettate il Suo piacere. Se gli chiedete di fare come piace a voi, non è abbandonarsi a Lui, ma un dare ordini. Non potete averlo ai vostri ordini e tuttavia pensate di esservi abbandonati. Egli sa ciò che è meglio, quando e come farlo. Lasciate ogni cosa interamente a Lui. Il fardello è Suo, voi non avete più alcuna preoccupazione. Tutti i vostri pesi sono Suoi. Tale è l’abbandono. Questa è la ‘bhakti’. Oppure, scoprite ‘a chi’ sorgono queste domande. Tuffatevi profondamente nel Cuore e rimanetevi come il Sé. Una di queste vie è aperta per l’aspirante.
D: L’abbandono è impossibile.
R: Sì. Il completo abbandono all’inizio è impossibile. L’abbandono parziale è certamente possibile per tutti. Nel corso del tempo esso porterà al completo abbandono. Ebbene, se l’abbandono è impossibile, cosa si può fare? Non c’è pace di mente. Sei incapace di provocarla. Può essere creata solo con l’abbandono.
D: L’abbandono, di per sé, è sufficiente a permetterci di raggiungere il Sé?
R: E’ sufficiente abbandonarsi. L’abbandono è affidarsi completamente alla causa originale del proprio essere. Non illuderti immaginando che tale sorgente sia un Dio fuori di te. La tua sorgente è all’interno di te stesso. Abbandonati a essa. Ciò significa che dovresti cercare la sorgente e fonderti in essa.
(…)
D: Swami, è bene amare Dio, non è così? Allora perché non seguire il sentiero dell’amore?
R: Chi ha detto che non dovresti seguirlo? Puoi farlo. Ma quando parli di amore c’è dualità; non c’è forse la persona che ama e l’entità chiamata Dio che è l’amato?L’individuo non è separato da Dio. Perciò amore significa che si prova amore nei confronti del proprio Sé.
D: Questo è il motivo per cui sto chiedendoti se Dio può essere adorato attraverso il sentiero dell’amore.
R: Questo è esattamente ciò che stavo dicendo. L’amore stesso è l’effettiva forma di Dio. Se dicendo: “Non amo questo, non amo quello” respingi ogni cosa, ciò che rimane è ‘swarupa’, cioè la reale forma del Sé. Quella è pura beatitudine. Chiamala pure beatitudine, Dio ‘atma’, o ciò che vuoi. Quella è devozione, quella è realizzazione e quella è ogni cosa. Se in questo modo respingi ogni cosa, ciò che resta è solo il Sé. Quello è amore reale. Chi conosce il segreto di quell’amore trova che il mondo stesso è pieno di amore universale. Solo l’esperienza del non dimenticare la coscienza è lo stato di devozione (‘bhakti’), che è la relazione del reale amore imperituro, perché la vera conoscenza del Sé, che risplende come l’indivisa e suprema beatitudine stessa, si erge come la natura dell’amore. Solo se si conosce la verità dell’amore, che è la natura reale del Sé, verrà sciolto l’ingarbugliato nodo della vita. Soltanto se si consegue l’apice dell’amore verrà conseguita la liberazione. Tale è il cuore di tutte le religioni. L’esperienza del Sé è soltanto amore, che consiste nel vedere solo amore, udire solo amore, sentire soltanto amore, gustare soltanto amore e odorare soltanto amore, che è beatitudine.
(…)
D: Ho fede in ‘murti dhyana’ (adorazione della forma). Non mi aiuterà a ottenere ‘jnana’?
R: Sicuramente lo farà. ‘Upasana’ (meditazione) aiuta la concentrazione della mente. Quindi la mente è libera da altri pensieri ed è piena della forma meditata. La mente allora diventa una con l’oggetto della meditazione, questo la rende del tutto pura. Quindi pensa chi è l’adoratore. La risposta è “io”, cioè il Sé. In questo modo, alla fine, è ottenuto il Sé. Adorare la realtà informale col pensiero non pensato è il miglior tipo di adorazione. Ma quando non si è idonei a tale adorazione di Dio senza forma, solo l’adorazione della forma è appropriata. L’adorazione senza forma è possibile soltanto per le persone prive della forma dell’ego. Sappi che tutta l’adorazione fatta da persone che possiedono la forma dell’ego è soltanto adorazione della forma. Solo il puro stato dell’essere uniti alla grazia (Sé), che è uno stato privo di ogni attaccamento, è il proprio stato di silenzio, libero da ogni altra cosa. Sappi che soltanto il dimorare costantemente come quel silenzio, avendolo sperimentato così com’è, è la vera adorazione mentale (‘manasika-puja’).
Sappi che l’adorazione dell’incessante, vera e naturale adorazione in cui la mente è arrendevolmente stabilita come l’unico Sé, avendo installato il Signore nel trono del Cuore, è silenzio, la migliore di tutte le forme di adorazione. Solo il silenzio privo dell’ego dogmatico è liberazione. Solo la malaugurata dimenticanza del Sé che distoglie da quel silenzio, è la non-devozione (‘vibhakti’). Sappi che il dimorare come quel silenzio, con la mente acquietata, come non differente dal Sé, è la verità di Shiva bhakti (devozione a Dio). Quando ci si è completamente abbandonati ai piedi di Shiva, diventando perciò della natura del Sé, solo la pace abbondante che ne risulta, in cui manca il più piccolo spazio all’interno del Cuore per affliggersi dei propri difetti e delle proprie mancanze, è la natura della suprema devozione. In questo modo, diventare uno schiavo del Signore e rimanere quieto e silente, privo persino dell’egoistico pensiero “Io sono il suo schiavo”, è dimorare nel Sé, e questa è la suprema conoscenza.
(…)
D: Al ‘bhakta’ occorre un Dio cui poter rivolgere la ‘bhakti’. Bisogna insegnargli che c’è soltanto il Sé e non un adoratore e un adorato?
R: Naturalmente, Dio è necessario per la ‘sadhana’. Ma il fine della ‘sadhana’, perfino nel ‘bhakti marga’ (il sentiero della devozione), è conseguito soltanto dopo il completo abbandono. Cosa significa, se non che l’annullamento dell’ego sfocia nel Sé, che rimane com’è sempre stato? Qualunque sentiero uno possa scegliere, l’”io” è inevitabile, l’”io” che compie il ‘nishkama-karma’ (azioni senza movente), l’”io” che aspira a congiungersi col Signore da cui sente di essere stato separato, l’”io” che sente di essersi allontanato dalla sua reale natura, e così via. Bisogna che sia scoperta la sorgente di questo “io”. Allora tutte le domande troveranno risposta.
D: Se anche l’”io” è un’illusione, allora chi si spoglia dell’illusione?
R: L’”io” si spoglia dell’illusione dell’”io” e tuttavia rimane come “io”. Tale è il paradosso della realizzazione del Sé. Il realizzato non vede nessuna contraddizione in ciò. Prendi il caso della ‘bhakti’. Io avvicino Iswara e prego di essere assorbito in lui. Quindi mi abbandono con fede e mi concentro su di lui. Cosa rimane dopo ciò? In luogo dell’”io” originale, il perfetto autoabbandono lascia un residuo di Dio in cui l’”io” si è perduto. Questa è la forma più alta di devozione (‘parabhakti’) e di abbandono ed è l’apice del ‘vairagya’ (non attaccamento). Abbandoni questo o quello dei “miei” possessi. Se invece abbandoni l’”io” e il “mio”, tutto viene abbandonato in un colpo solo. Il seme stesso del possesso viene perduto. In questo modo il male è tagliato alla radice o schiacciato nel germe stesso. Per fare ciò, il distacco (vairagya) deve essere molto forte. L’ardore nel farlo dev’essere uguale a quello di un uomo tenuto sott’acqua che cerca di tornare alla superficie per salvarsi la vita.
Tratto da: “Sii ciò che sei”, a cura di David Godman, Ed. Il Punto d’Incontro, pagg. 99-111.