Il Glorioso disse:” Io oggi ti ho esposto questo metodo antico perché’ tu sei mio devoto e
amico. Questo è il più’ alto segreto (Bhagavadgita).
Da un testo antico senza tempo, sacro soprattutto in oriente, intitolato Yoga Sutra, l’autore
Patanjali, filosofo e saggio indiano usa poche parole per definire lo Yoga: “Lo Yoga è la
soppressione dei movimenti della coscienza” ovvero, traduzione che in sanscrito suona
così’: Yogas chitta vrtti nirodhah.
Patanjali, considerato il padre dello Yoga, si dice che fu un’anima evoluta che decise di
reincarnarsi come essere umano per aiutare l’umanità.
Decise di sperimentare gioie e dolori della vita, trovando così il metodo per superare le
sofferenze degli uomini. Lo mise per iscritto nei suoi 196 Sutra (fili o aforismi) dove
affronta tutti gli aspetti della vita, i principi etici e morali, le rinunce che ogni individuo
dovrebbe mettere in atto.
Affronta come è formata la coscienza, la mente, l’anima, il corpo, e come attraverso la
pratica e il distacco possiamo superare gli ostacoli.
“Lo Yoga è uno stile di vita che garantisce, una salute perfetta, tale da sublimare ciò che
nell’uomo è ignobile in ciò che c’è di più nobile” (Sri Yogendra).
Oggi purtroppo ci sono numerosissime idee sbagliate su quello che veramente è lo Yoga.
Non è uno sport, poiché negli sport vige la competizione, nonostante con la pratica si
diventa flessibili e tutti i muscoli del corpo si sviluppano armoniosamente.
Non è una religione, una forma di ideologie, un dogma o un insieme di regole da seguire,
ma è uno strumento per migliorare sé stessi, per ritrovare armonia con il mondo, essere
più vero e vivere nel presente. È una disciplina completa che serve per migliorare la vita in
tutti i suoi aspetti. Il percorso dunque propone l’osservazione di sé stessi e dei propri
pensieri e di come questi possono diventare intossicanti.
La mente è uno strumento nelle mani dell’anima attraverso cui vengono catturati gli
oggetti esterni. La mente è in continua evoluzione, è vacillante e può attaccarsi a diversi
organi, a uno, oppure a nessuno.
Ha il potere riflessivo di guardare nelle proprie profondità, concentrando i propri poteri e
veicolandoli dentro di noi affiorandone tutti gli stati mentali. Si può percepire come una
sensazione si muove, come la mente la riceve, come essa va verso una determinata
facoltà, e come questa la consegna all’anima: “prendi un’idea, fai di questa idea la tua vita,
pensala, sognala, vivi per questa idea”.
Quindi lasciare che il cervello, i muscoli, i nervi, ogni parte del nostro corpo siano pervasi
da questa idea o pensiero per poi riuscire a farli fluire e lasciarli andare.
In Oriente, i vari filosofi, studiosi, saggi, hanno osservato e studiato a fondo il
funzionamento della mente, hanno notato che ci sono diverse attitudini nell’uomo ed è
importante quindi che ognuno possa seguire la propria inclinazione. Ci sono menti
tendenzialmente devozionali, menti più razionali e scientifiche, altre dinamiche attive e
menti più filosofiche.
È molto importante conoscerle per imparare a conoscerci ed entrando nella propria
profondità, scegliere la via più giusta per noi (nessun altro ha diritto di obbligarci a seguire
una direzione piuttosto che un’altra: ci farebbe male.)
Per esempio, immaginiamo di obbligare una persona iperattiva a rimanere seduta a gambe
incrociate per ore a meditare, otterremmo un ulteriore stato negativo, poiché lo scopo di
ogni praticante Yoga è quello di raggiungere la pace mentale.
Lo Yoga quindi estingue le modificazioni della mente, ma ciò non significa che smette di
pensare.
Produce nel tempo una condizione di quiete e stabilità in cui la mente finalmente smette di
agitarsi. Prendiamo come esempio l’acqua del mare: se agitiamo l’acqua, la sabbia del
fondale si alza e non si vede più niente, ma se lasciamo l’acqua quieta, le particelle in
sospensione lentamente si depositano, l’acqua diventa trasparente e tutto diventa più
chiaro. Lo stesso vale per la nostra mente, i pensieri che continuamente si agitano non
consentono di ragionare con serenità e di vedere le situazioni con chiarezza.
Quando si è coinvolti in un vortice di pensieri, il distacco sembra impossibile. Come si
osserva una bufera da fuori se ci si è esattamente dentro?
Nei corsi di discipline orientali (Yoga, meditazione, ecc.) ci viene detto di osservare i nostri
pensieri, ma quando siamo in preda di essi, diventarne consapevoli è un gran passo. Infatti,
i pensieri per loro stessa natura hanno un’origine, una loro vita, un’evoluzione, seguono
fluttuazioni e quindi portano un’energia che poi si esaurisce e se questo meccanismo ad
anello si ripete, ne diventiamo preda e le nostre energie svaniscono velocemente.
“Il silenzio è una grande risorsa ma spaventa. È solo nell’assenza di parole che si trova il
sé.”
Curioso ed efficace è lo Yoga attraverso cui la consapevolezza, il corpo si rivela e si
manifesta. Essere consapevoli vuol dire essere completamente presenti in ciò che si fa,
vuol dire ascoltare ogni centimetro di pelle, ogni respiro, ogni battito del cuore, vuol dire
vivere nell’attimo presente, non nel ricordo del passato, né nella speranza del futuro.
Il praticante segue la pratica nella sua completezza: il corpo deve lavorare (a livello
materiale), la mente lo deve guidare (livello mentale), l’energia deve circolare (livello
pranico) e lo spirito deve sostenere tutto (livello spirituale).
Ma tornando al nostro termine sanscrito iniziale Yogas chitta vrtti nirodhah, questo è il suo
significato:
Yoga: unificazione, connessione, imbragatura, giogo, unione tra due o più cose,
qualcosa che è collegato ed è anche in armonia. Significa unità dell’uomo con Dio (o sé
più elevato), con tutti gli esseri umani, significa unione nella pratica e quindi unione tra
mente corpo e spirito.
Chitta: mente, organo mentale, pensiero, sentimento, subconscio, coscienza. La mente
diventa come un cristallo, riflette tutto il mondo esterno, dove tutto è possibile e dove
si crea la nostra idea di mondo, ma che in realtà non è quella veritiera.
Vrtti: azione, movimento, fluttuazione, processo mentale-spirituale. Negli Yoga Sutra
Patanjali descrive cinque onde di pensiero:
Pramana: i pensieri che hai possono essere la giusta conoscenza.
Viparyaya: i pensieri che hai possono essere falsa conoscenza, ingannevole.
Vikalpa: immaginazione (potrebbe essere, potrebbe non essere), immaginare
qualcosa nel futuro.
Nidra: stai dormendo nel sonno profondo, sei vicino a te stesso, sei nel ricordo, ma
non sei ancora vicino a “Dio” (coscienza)
Smriti: memoria, le fluttuazioni nate dal ricordo o dalle vite passate generano caos
mentale.
Nirodhah: è la designazione di uno stato d’animo senza pensieri. È lo stato mentale in
cui si è controllati. Quindi significa dissolvere, controllare, annientare, portare a riposo,
perciò lo Yoga serve per calmare la mente nella mente. Quando essa viene messa a
riposo, l’individuo riposa nella sua vera natura.
Patanjali lo descrive nel terzo verso degli Yoga Sutra: “Tada Drashthu Svurape
Vasthanam” (ripristinando i pensieri nella mente arriva l’illuminazione, la liberazione,
la realizzazione di Dio). È per ottenere tutto ciò che Patanjali ci suggerisce di praticare
sempre nella vita, tutti i giorni.
Nel suo capolavoro egli propone una descrizione dell’approccio generale dello Yoga
rispetto ad alcuni suoi scopi ed obiettivi. L’idea di Patanjali è quella di annullare la
tendenza ad assumere vari comportamenti (Vrtti) o atteggiamenti che il soggetto
assume in reazione a determinati stimoli ambientali o a bisogni interni.
Un esempio semplice: vedere o odorare un cibo buono fa nascere il desiderio di
mangiarlo.
Ma il problema resta più complicato perché per la maggior parte del tempo, noi
rimaniamo identificati con i nostri comportamenti e per questo motivo può crearsi uno
stato interiore disturbato.
Negli Yoga Sutra Patanjali copre tutti gli aspetti della vita, come il corpo, la mente,
l’anima, i principi etici e morali, le rinunce, che il praticante dovrebbe mettere in atto.
L’opera è divisa in quattro parti: Samadhi Pada, Sadhana Pada, Vibhuti Pada, Kaivalya
Pada.
Nel secondo capitolo Sadhana Pada, Patanjali si rivolge a chi non è ancora
spiritualmente evoluto e spiega la via attraverso il sentiero degli otto passi.
YAMA
In sanscrito questo termine significa “astensioni” e sono le norme di comportamento che
hanno lo scopo di migliorare la nostra vita nella società e verso gli altri. Gli Yama possono
essere considerati come le fondamenta della casa dello Yoga, senza di queste difficilmente
la casa resterà stabile. Le astensioni sono:
Ahimsa: non violenza, non far del male, applicato alla pratica fisica, ai pensieri, alle
parole, ai comportamenti, e anche al mangiare (questa è la principale motivazione del
perché la maggior parte dei praticanti Yoga sono o diventano vegetariani o
vegani).”Quando la non violenza in parole, pensieri e azioni è resa stabile, l’uomo
abbandona la sua natura aggressiva e gli altri cessano di essere ostili in sua
presenza”. Cit.
Satya: non mentire, la verità riguarda pensieri, parole e azioni. “Quando il praticante è
ben stabile nella pratica della verità, le sue parole diventano così potenti che
qualsiasi cosa dica si realizza”. Cit.
Asteya: onestà, non rubare, non desiderare quello che non è nostro e le abilità degli
altri, sviluppare invece l’arte della generosità.” Quando l’astensione del rubare è
fermamente stabilita, allora arrivano le gemme più preziose”. Cit.
Brahmacharya: la castità ed il controllo dell’energia vitale in attività futili. Spesso mal
interpretato, secondo lo Yoga la forza sessuale è molto potente e se si reprime si va
solo contro la propria natura.” Quando il praticante è fermamente stabile nella
continenza, la conoscenza, il valore e l’energia fluiscono verso di lui”. Cit.
Aparigraha: non avidità, non possessività, astenersi dal superfluo e quindi non
desiderare quello di cui non abbiamo veramente bisogno. Questo desiderio porta e
genera attaccamento, ai beni materiali, al corpo e ai pensieri.” La conoscenza delle
vite passate e future si rivela quando la persona è libera dall’avidità di possedere”.
Cit.
2. NYAMA
Mentre gli Yama si basano sul principio di “non fare”, i Nyama si basano “sul fare”, sono
quindi di tipo disciplinare e in sanscrito il termine significa “osservanze”, agiscono a livello
interiore e sono cinque:
Saucha: pulizia del corpo =
Jala Neti (pulizia nasale);
Nauli (pulizia e rafforzamento dell’addome);
Dhauti (pulizia del tratto digestivo superiore);
Basti (pulizia del colon);
Kapalabhati (pulizia dei polmoni e dei bronchi);
Trataka (pulizia degli occhi).
Oltre alla pulizia del corpo, Saucha è anche pulizia della mente e degli ambienti che
frequentiamo.
Santosha: contentezza, capacità di accontentarsi di ciò che abbiamo e di ciò che siamo,
capendo cosa è superfluo e cosa non lo è sviluppiamo uno stato di soddisfazione e
maturiamo l’arte del lasciar andare.
Tapas: austerità, forza di volontà, costanza e dedizione.
Svadhyaya: è lo studio di sé stessi attraverso testi antichi e filosofici indiani come nello
Yoga Sutra di Patanjali negli Upanishad o nel Bhagavadgita.
Isvara Pranidhana: abbandono alla volontà divina, alla natura che ci sovrasta e ci guida
ad avere fiducia nel percorso intrapreso.
3. ASANA
Questo termine in sanscrito può avere diversi significati e originariamente significava stare
seduti. Con il passare del tempo ha assunto un altro senso: posizione statica. Attualmente
con questo termine si intende qualsiasi posizione che facciamo quando pratichiamo yoga.
Negli Yoga Sutra di Patanjali l’asana viene definito come: “Sthira Sukham Asanam”.
Sthira: calmo, composto, sereno, stabile, durevole e fermo.
Sukham: beatitudine, benessere e gioia.
Asanam: plurale in sanscrito di asana (posture).
Quindi l’esecuzione delle posture dovrebbe essere calma, serena e durevole sia a livello
fisico che mentale. Anche durante una posizione difficile bisognerebbe essere sempre
rilassati. Nello Yoga il “lasciarsi andare” è l’asana più difficile. Questo non vuol dire che non
c’è sforzo, anzi è pure intenso, ma se si riesce ad attivare solo i muscoli corretti lasciando
tutti gli altri allo stesso tempo rilassati, ecco che si sperimenta quel senso di beatitudine di
cui parla Patanjali.
Se si è troppo tesi, si respira male, non si vede l’ora di uscire dalla posizione e si finisce per
attivare il muscolo che non si dovrebbe, perciò il rischio è quello di accumulare tensione sia
nel corpo che nella mente.
L’aiuto più semplice e naturale al mondo è di attivare il respiro. Senza una corretta
respirazione lo Yoga non è altro che ginnastica: mentre si inspira, il corpo si espande,
mentre si espira, lasciamo andare ogni tensione fino alla fine dell’espirazione.
Tutto deve essere rilassato, persino lo sguardo dovrebbe essere rivolto all’interno di noi, in
modo da concentrarsi sul corpo e non su cose che ci possono distrarre. La consapevolezza
durante la pratica è importantissima. Quando si esegue una posizione si è costretti ad
osservare sé stessi, a non farsi del male, a correggersi, a riflettere durante un movimento.
Bisogna abbandonare l’Ego e non avere fretta.
Con il troppo Ego ci si fa male, si crea tensione, e spesso si arriva a un eccessivo
allungamento muscolare. La soluzione è rilassarsi e non avere fretta.
Questo aspetto infatti, si riflette molto nella nostra vita quotidiana. Grazie alla pratica degli
asana possiamo auto-riequilibrarci. Bisogna dare ascolto ai segnali che il corpo manda.
C’è sempre una parte più debole nel nostro corpo, è qui che bisogna dare più attenzione,
non evitarla e lavorarci più a fondo per migliorarla. Nello Yoga bisognerebbe trattare il lato
del corpo più debole e squilibrato come se fosse un figlio che ha bisogno di aiuto e
necessita di maggiore attenzione.
Con questa pratica di pazienza, si ritrova equilibrio non solo nel corpo ma anche nella vita
in generale. Un altro aspetto mentre si pratica è affrontare il dolore muscolare e quando
sorge a volte può addirittura intimorirci, ma anche questa volta non bisogna evitarlo.
È proprio ascoltando il dolore che ci si accorge dove si sbaglia. Ascoltando i propri limiti
fisici ci si corregge e ogni volta che si esegue un asana, con serenità, si svilupperà una
grande forza di volontà e tanta perseveranza. Perfino il giudizio e il confronto con gli altri è
totalmente sbagliato con la pratica Yoga, perché durante l’asana si svilupperà un auto
stima per aver raggiunto miglioramenti eseguiti con fatica.
Le posizioni dello Yoga mettono in comunicazione il corpo materiale con il corpo
energetico sottile.
Ogni parte del corpo è dominata e controllata da una specifica parte del cervello e a livello
sottile da energia.
Quando assumiamo una posizione tutto il corpo lavora: lo scheletro sostiene la struttura, i
muscoli si occupano dei movimenti, la mente coordina il movimento, la stabilità e il
respiro, mentre la parte energetica di noi (l’anima)vive la posizione nel suo insieme.
Quando raggiungiamo l’equilibrio, la stabilità, la serenità nella posizione, la nostra anima
diventa la posizione stessa e se ci lasciamo andare diventiamo noi stessi, la posizione e la
figura che stiamo rappresentando. Gli asana evocano figure simboliche del mondo
vegetale, minerale, animale, mitologico e figure geometriche: l’albero, il guerriero, la
montagna, il triangolo ecc. ecc.
Lo Yoga è un continuo ciclo di forme in trasformazione ed è attraverso questo percorso che
ogni volta proviamo a dare vita a un pensiero, un’azione, un momento e poi (la parte più
difficile) a lasciarlo andare per poter dare vita a qualcosa di nuovo.
Durante la pratica, ogni asana viene preparata con movimenti di riscaldamento che
preparano il corpo ad assumere quelle forme, ed in quella forma corpo, mente, anima e
respiro si uniscono nella completezza dello Yoga.
Di seguito vengono riportati alcuni esempi di asana:
Tadasana: in sanscrito è la posizione della montagna, questa è un asana
apparentemente semplice. È la posizione in piedi in cui si sta immobili e diritti.
Richiede equilibrio lungo l’asse verticale del corpo che passa dalla sommità del cranio
e ricade fra i piedi. La posizione della montagna ci insegna, come stare sui nostri due
piedi e come radicarci a terra, così che il nostro corpo diventa un collegamento tra
cielo e terra. Aiuta a focalizzare la mente, migliorare la postura ad allineare il corpo, a
sentirsi leggeri, a riposare. Tadasana è la base di tutte le posizioni in piedi, è la prima
posizione che bisognerebbe apprendere quando si inizia a fare Yoga. Infatti, in questa
posizione ci si rende subito conto dei propri squilibri. È la posizione della montagna,
che simboleggia perfettamente lo “Yogas chitta vrtti nirodhah” di Patanjali. Questo
perché come la montagna esposta a tutte le avverse condizioni atmosferiche (pioggia,
vento, bufere e uragani) rimane ferma e stabile e anche il corpo durante la pratica
impara l’immobilità, la stabilità e a percepire tutto il corpo nello spazio.
Vrksasana: in sanscrito è la posizione dell’albero. Posizione che per eccellenza ha lo
scopo di aumentare il senso dell’equilibrio. È una posizione che prevede il
bilanciamento su una gamba e le braccia unite sopra la testa, proprio come un albero.
Di grande valore simbolico indica la necessità di piantare radici profonde nel terreno
per poi elevarsi verso il cielo. Nonostante sia considerata un’asana semplice si nota
subito quanto sia difficile restare in equilibrio su un solo piede e per questo essa
richiede molta concentrazione, equilibrio e forza.
Trikonasana: in sanscrito è la posizione del triangolo, cosi denominata perché il corpo
divaricando le gambe forma con il suolo diversi triangoli. Quest’ asana incrementa la
forza e la stabilità nelle gambe e permette un’apertura del petto. Nella tradizione
mitologica il triangolo è simbolo del principio divino. Il vertice rivolto verso il basso
rappresenta il principio femminile, mentre il vertice verso l’alto rappresenta la forza
maschile. Nello Yoga inoltre la triangolarità simboleggia la vittoria su sé stessi.
Rappresenta l’unione di corpo, mente e spirito. È una figura capace di resistere alla
pressione, consente cosi, mentre si pratica di chiedersi in quale misura si riesce a
resistere.
Virabhadrasana (1): in sanscrito è la posizione del guerriero. È anche questa un’asana
in piedi, chiamata così in onore di un eroe mitologico indù (Virabhadra) valoroso
potente guerriero con numerose braccia e occhi di fuoco. Tralasciando il significato
mitologico, il guerriero è inteso come quel combattente spirituale che si trova in
ognuno di noi, che combatte giorno dopo giorno e affronta le difficoltà che la vita ci
mette davanti. È un asana impegnativa poiché richiede un affondo intenso su una
gamba il cui dorso si estende verso l’alto e il torace si apre. La pratica costante di
questa posizione dona forza fisica, mentale, emotiva e spirituale e aiuta ad affrontare
la vita con maggiore calma ed equilibrio.
Garudasana: in sanscrito è la posizione dell’aquila, ma “Garuda” è anche il nome di
un essere divino considerato il re degli uccelli. Questa creatura mitologica è un
enorme uccello con il corpo da uomo color oro, la faccia bianca, le ali dorate e con il
becco d’aquila. È una divinità nemica dei serpenti e protettrice degli esseri umani. È la
metafora dell’antico conflitto tra il potere della mente (l’aquila che si leva verso
l’alto) e la materia (il serpente che striscia sul ventre dell’aquila) ossia la tentazione
delle forze della terra. La posizione dell’aquila è una posizione in piedi, asimmetrica,
di equilibrio dove è richiesto l’intreccio delle braccia e delle gambe. È un asana che
richiede attenzione, forza e una buona dose di serenità. Quando viene eseguita
correttamente, come accade in tutte gli asana e le fluttuazioni della mente
scompaiono e si sperimenta uno stato di benessere e di grande energia. In
Garudasana impariamo che più ci vogliamo innalzare (spiccare il volo) più ci
dobbiamo radicare e più ci vogliamo radicare (le zampe dei rapaci sono simili a radici)
più è importante avere un buon equilibrio.
Bhujangasana: Bhujang in sanscrito significa serpente, chiamata anche la posizione
del cobra, perché ricorda il cobra in posizione d’attacco. L’asana prevede che ci si
sdrai a terra con viso e addome rivolti verso il basso e con la schiena piegata
all’indietro. È un Asana di grande forza e apertura. Nella tradizione induista il cobra è
il simbolo del Dio Shiva (signore degli Yogin, coloro che praticano lo Yoga) infatti è
rappresentato con un cobra avvolto intorno al collo, ai polsi, e alle caviglie. Il serpente
rappresenta l’eternità, il ciclo della ripetizione delle nascite, ma è soprattutto il
simbolo della trasformazione, poiché cambia completamente la sua pelle. Ma è anche
colui che vive nel sottosuolo, per questo è considerato anche il simbolo della
conoscenza poiché dall’oscurità riemerge verso la luce. Se l’occidente guarda il
serpente come simbolo di morte e peccato, l’oriente considera il suo aspetto letale
(iniezione di veleno) come arma di difesa necessaria alla sopravvivenza. Il suo veleno
letale è simbolo di morte ma, allo stesso tempo la sua capacità di cambiare pelle è
simbolo di rinascita e di profonda trasformazione interiore. Il serpente quindi
rappresenta la continua lotta tra la vita e la morte e incarna la paura di essere
sopraffatti dalle avversità della vita. Sempre simbolicamente rappresenta l’energia
Kundalini, l’energia che attraversa il centro della colonna vertebrale, rappresenta
perciò un potente sostegno, la forza! Affascinante è il mito: Bhujanga è anche Ananta,
il serpente dell’eternità, dalle sette teste, arrotolato su sé stesso che galleggia sul
fiume sacro mentre Vishnu (divinità maschile protettrice del mondo) dorme
beatamente su di lui e la Dea Lakshmi (sua consorte e Dea dell’abbondanza) lo
sorveglia e gli massaggia i piedi con l’Amrita, l’elisir dell’immortalità. L’asana del
cobra lavora sull’autostima, sulla pazienza, sul coraggio di cambiare, sulla capacità di
riuscire a esprimere le proprie emozioni liberandosi dalla paura del giudizio. Ed
essendo, come in tutte le pratiche della vita un lavoro lungo, stimola la pazienza di
saper aspettare il cambiamento. “Sii come il cobra che si muove lentamente e
attacca rapidamente con la testa ben alzata e gli occhi sempre aperti”. Cit.
Padmasana: dal sanscrito significa posizione del fiore di loto. È una posizione seduta
a terra a gambe incrociate che apre le anche e dona un incredibile flessibilità a
caviglie e ginocchia. Il fiore di loto è un fiore acquatico con numerosi petali e che
cresce negli stagni o in corsi d’acqua stabili. Il fiore di loto possiede calma, stabilità e
bellezza, caratteristiche che si possono ammirare anche in un praticante che assume
quest’asana. Le sue radici crescono nel fango sottostante a cui rimane aggrappato
saldamente anche se l’acqua scorre, e quando fiorisce lo fa verso l’alto. Così anche in
quest’asana ci si eleva verso il cielo e allo stesso tempo si rimane radicati alla terra.
Si potrebbe andare avanti nel tempo a raccontare e descrivere di altrettanti asana
affascinanti e dedurre l’obiettivo che Patanjali vuole farci affrontare. Lo scopo della
pratica non è solo nel corpo. Gli asana sono tutte posizioni ferme, di forza, di
equilibrio e di fierezza, siano esse praticate sdraiati a terra o in piedi. L’asana
permette di aumentare la consapevolezza attraverso la procedura, la pratica. Negli
asana non viene sottovalutata nessuna parte del corpo, un grande esempio lo sono i
nostri piedi. Questi sono come le radici di un albero, sono le fondamenta del nostro
tempio (corpo-spirito). La mente deve essere calma durante la pratica altrimenti si
perdono equilibrio e forza. Ci si concentra e si resiste, esattamente come il metallo
resiste alle forze meccaniche che gli vengono applicate, a livello psicologico gli asana
ci insegnano la capacità di resistere e di persistere verso i nostri obiettivi. Molte volte
ci è capitato di non riuscire a eseguire un asana oppure questa ci richiedeva tanta
resistenza ed energia. La resilienza, quindi la capacità di persistere, ci insegna che
davanti a sconfitte e frustrazioni non dobbiamo mollare, non dobbiamo perdere la
speranza. La pratica ci renderà fortemente motivati a raggiungere obiettivi che
c’eravamo prefissati e tenderemo a vedere cambiamenti come una sfida, come
un’opportunità e non come una minaccia.
4. PRANAYAMA
Arriviamo così al quarto passo del cammino descritto da Patanjali negli Yoga Sutra. La
parola in sanscrito è costituita da Prana (soffio vitale) e Ayama (espansione o estensione).
Il Pranayama è definito come la scienza del respiro dove vengono utilizzate tecniche
respiratorie con lo scopo di disciplinare il respiro, controllarlo, espanderlo e utilizzare più
consapevolmente il sistema respiratorio.
Ma secondo lo Yoga, il respiro è qualcosa di più sottile. Il Prana è l’energia universale che
possiamo trovare in tutto il cosmo. Questa energia la troviamo in forma fisica, mentale,
sessuale, nel cibo che mangiamo, nel calore e nella luce. Possiamo così definire come
Prana qualsiasi forma di energia vibrante che crea, protegge, distrugge e che si trova in
tutti gli esseri viventi. Viene associato al respiro poiché è la principale manifestazione nel
corpo umano.
Quando un essere vivente nasce e inizia a respirare comincia ad assorbire Prana che
rimane nel suo corpo fino a che c’è vita. Quando avviene la morte il Prana si dissolve di
nuovo nell’atmosfera. Gli antichi Yoghi studiarono attentamente la natura e si resero conto
che tutti gli animali con una respirazione più lenta hanno una durata di vita maggiore
rispetto a quelli che invece respirano in modo più veloce.
Quindi dedussero che la durata della vita è strettamente correlata alla respirazione. Se si
respira costantemente in modo calmo, lento e regolare allora la durata della vita sarà
maggiore. Questi dati trovano attualmente conferma in numerose ricerche scientifiche:
una respirazione ottimale permette un maggior assorbimento di ossigeno, che poi si
ripercuote in una maggiore salute di tutte le cellule dell’organismo.
Il respiro non è altro che un succedersi di espirazioni ed ispirazioni al fine di scambiare le
sostanze gassose con l’esterno: attraverso i polmoni il sangue espelle anidride carbonica e
incorpora ossigeno.
Nello Yoga oltre all’ossigeno il corpo assorbe l’energia vitale cioè il Prana e quindi
respirando correttamente sperimenteremo i seguenti benefici: aumento della vitalità,
riduzione dello stress, miglioramento del pensiero e l’acquietamento della mente (se le
cellule del sangue del cervello e di tutti gli organi sono meglio nutrite e più ossigenate
queste possono effettuare il loro compito in modo migliore).
Quando siamo estremamente agitati e si respira con affanno, per calmarci in maniera
inconsapevole attiviamo un bel respiro profondo e automaticamente la mente si placa.
Praticando gli asana avviene la stessa cosa, per istinto si tende a trattenere il respiro, ma è
sbagliato, anche se complicato bisogna sempre respirare e non trattenere mai. Il respiro
deve essere morbido e lento, facile e regolare, lungo e continuo, profondo e libero.
Ci vuole tempo e pratica costante.
Le fasi nel Pranayama sono così descritte:
Puraka = inalazione: serve per stimolare l’organismo
Rechaka = esalazione: serve per rilassare l’organismo e per eliminare l’aria viziata e le
tossine.
Kumbaka = ritenzione del respiro: serve a distribuire l’energia in tutto il corpo. La
ritenzione o l’apnea bisogna sempre applicarla con consapevolezza.
Come specificato da Patanjali negli Yoga Sutra è importante che la pratica del Pranayama
avvenga solo dopo che si è raggiunto un ottimo livello dagli asana, dopo che si è raggiunta
un’ottima consapevolezza della respirazione, dopo aver raggiunto un buon controllo del
proprio corpo e della propria mente.
Il Pranayama sarà di grande aiuto per riuscire a stabilizzarsi negli asana. Tra le varie
tecniche utilizzate ce n’è una in particolare che è di valido aiuto per aumentare la
concentrazione, controllare il respiro e calmare la mente.
È chiamata Ujjayi Pranayama, conosciuta anche come il respiro del vittorioso. Durante la
pratica degli asana può essere mantenuta per tutta la durata della posizione. Quando si
pratica i polmoni si espandono in tutte le direzioni ed il torace si espande proprio come
quello di un vittorioso guerriero, permette cosi di vincere la mente, la quale si calma, e
permette di essere nel qui e ora, cioè nel presente.
Quando la mente è pienamente consapevole di cosa sta succedendo nel momento
presente, sta vivendo pienamente, ma quando non lo è la si sta perdendo. Questo accade
perché la mente corre costantemente dietro ai pensieri a ricordare il passato, ad
immaginare il futuro.
La mente è sempre indaffarata a fare qualcosa che si dimentica di vivere il momento
presente. E purtroppo siamo noi stessi a creare le condizioni mentali: “Nella mente ha
origine la sofferenza. Nella mente ha origine la cessazione della sofferenza (Buddha)”.
Perciò per riportare la mente su qualcosa che esiste nel presente usiamo il respiro.
La tecnica di Ujjayi Pranayama prevede di inspirare ed espirare profondamente e
lentamente e di restringere consapevolmente l’apertura della glottide, in modo che l’aria
resti più a lungo nella faringe e nelle cavità nasali.
In questo modo l’aria rimane molto più tempo a contatto con la mucosa ricca di sangue,
che ha il compito di riscaldarla e per questo aumenta anche la temperatura corporea. Il
suono di questo respiro che esce e fuoriesce dalle narici è molto rumoroso, diventa simile a
quello delle onde del mare o di un bambino che dorme. Per questo ha un effetto di
profondo rilassamento, calma il sistema nervoso e la mente.
Quando il Prana o l’energia vitale viene assorbito correttamente, il corpo diventa più
fluido, più predisposto all’apertura e facilitando l’allungamento nelle posizioni permette
persino alle persone più rigide di sentirsi molto più flessibili e sciolte.
Questa descritta fino ad ora è una delle tante tecniche di Pranayama, ognuna è
caratterizzata dal proprio movimento del respiro, ma tutte stabilizzano le fluttuazioni
(Vritti) della mente.
5. PRATYAHARA
I primi quattro passi descritti da Patanjali (Yama, Nyama, Asana e Pranayama) ci hanno
insegnato a controllare i comportamenti, le attitudini, il corpo e le energie sottili. Con
Pratyahara impareremo a sviluppare il controllo sui sensi e inizieremo a dirigere a nostro
piacimento la mente. “Quando gli organi mentali di azione e percezione (Indriya) cessano di
essere coinvolti con i loro corrispondenti oggetti e si dirigono all’interno del campo mentale
da cui scaturiscono, questo è definito Pratyahara. Da quel svolgersi all’interno delle Indriya
consegue una suprema abilità nel padroneggiarle”. Cit.
In sanscrito Prati significa “contrario” o “via da” mentre Hara deriva dalla radice “Hri” che
significa “Tirare via da” e si riferisce all’idea di tirare via i sensi dai loro oggetti del
desiderio, ritirandoli verso l’interno e sviluppando un forte senso di interiorizzazione. Molti
saggi induisti hanno descritto i sensi come “farfalle ubriache del nettare dei fiori” che
svolazzano da una parte all’altra, compiacendo il loro desiderio di dolce gioia e
intossicandosi nella ricerca del piacere.
È normale che l’appagamento dei sensi porti un indiscutibile piacere, a ciascuno di noi
piace assaggiare cibi gustosi, ammirare stupendi paesaggi, ascoltare musica, in tutto ciò
non vi è nulla di sbagliato.
A volte però l’appagamento dei sensi diventa l’unico obiettivo della vita e questo rende
inevitabilmente schiavi del desiderio di voler provare sempre più piacere. La vista, l’udito,
l’olfatto, il tatto durante la pratica del Pratyahara non vengono quindi più rivolti verso il
mondo esteriore (verso la manifestazione) ma vengono rivolti verso l’interno (verso quel
vasto mondo che è dentro di noi: vediamo, annusiamo, tocchiamo, udiamo).
Attraverso questa pratica si acquisisce una maggiore consapevolezza dei propri desideri,
delle proprie paure, e dei pensieri più profondi, portando pace, armonia e controllo nella
propria mente. Sarà possibile diventare più stabili mentalmente, emotivamente e
fisicamente e la nostra forza e la nostra energia faranno in modo di non lasciarci distrarre
dai nostri sensi e desideri.
Una delle tecniche del Pratyahara è quella di conoscere e praticare il Pranayama poiché le
fasi di inspirazione ed espirazione distolgono la mente dai pensieri emotivi positivi o
negativi. Mi assalgono collera, paure o turbamenti di ogni tipo? Cercherò di raccogliere le
mie forze e dirigerò ogni pensiero al centro del respiro. Con un costante allenamento,
prima o poi la mente cederà e si acquieterà.
Il Pratyahara ci offre numerose tecniche, per esempio nella visualizzazione consiste nel
proiettare con la mente una serie di immagini piacevoli e rilassanti. In questo modo le
impressioni sfavorevoli della nostra mente lasciano il posto a quelle favorevoli. Un’altra
tecnica consiste nell’auto rilassamento di tutto il corpo, come avviene nello Yoga Nidra o
nel Reiki (qui l’auto rilassamento viene guidato).
Nella pratica la nostra mente viene “ritirata” dagli elementi esterni e portata a concentrarsi
unicamente sul corpo, organo per organo che ci porta a un totale e completo rilassamento.
Ultima tecnica di livello avanzato e assai difficile è quello di attirare l’attenzione su un di un
solo organo e di rimanerci più a lungo possibile. Questa tecnica è fonte d ricerca e di studi
per molti scienziati e psicologi.
È oramai constatato di come noi possiamo diventare padroni della nostra mente solo per
mezzo dell’allenamento e dell’esercizio. Alcune malattie a volte sono di natura
psicosomatica, cioè sono causate dallo squilibrio del pensiero, ma possono essere curate
anche, semplicemente riequilibrando il modo di pensare.
6. DHARANA
Quando il corpo è in salute ed equilibrato, grazie alle pratiche di asana, Pranayahama, e
Pratyahara, la mente è pronta per eseguire Dharana: la concentrazione.
La parola Dharana deriva dalla radice sanscrita “Dhri” che significa “trattenere”. Patanjali
nel suo sesto passo descrive la concentrazione come la capacità di “legare la coscienza in
unico posto: DESHBANDHAS CHITTASYA DHARANA”.
Il luogo dove trattenere la coscienza o la mente può essere verso un posto fisico, cioè un
oggetto esterno, come per esempio la fiamma di una candela, il sole o un fiore. Posso
dirigere la mia mente su un punto energetico del mio corpo o su un pensiero ripetuto
mentalmente come avviene con il mantra.
Per esempio: usiamo il mantra “Om” e iniziamo a recitarlo o cantarlo a voce alta e con
calma. In questo modo occhi (visualizziamo persino il simbolo) orecchie e lingua si
concentrano su un solo oggetto (suono) e la mente attirata dalle percezioni dei sensi si
fisserà in quel solo concetto: “Om”.
Poco dopo chiuderemo gli occhi e proveremo a concentrare la mente solo sul ricordo del
suolo percepito attraverso gli occhi, la lingua e le orecchie, fino a provare un senso di pace.
Ma solo quando la mente è calma si può percepire questo senso di pace e immobilità
poiché sono la vera essenza della nostra natura.
Questa abilità di focalizzarsi con attenzione in un singolo punto sarà utile in diverse
situazioni come per esempio per ridurre la fatica mentale, mantenere la capacità di
attenzione per lunghi periodi,migliorare la memoria a breve termine e ottenere uno stato
di pace interiore durante tutto il giorno.
“Su qualsiasi cosa noi poniamo attenzione, noi diventiamo quella cosa”.
7. DHYANA
Dhyana in sanscrito “visione”, è secondo Patanjali, il proseguimento naturale dello stato di
Dharana. Dhyana è il vero stato di meditazione. La mente rimane assorbita nell’oggetto su
cui si è posata, senza più nessuna tecnica, senza nessuno sforzo.
L’attività dei pensieri, grazie alla pratica di Dharana è spenta. I rumori attorno non ci
distraggono più.
Ci siamo ritirati, rifugiati, quietamente nell’oggetto della meditazione. Dhyana è uno stato
di continua contemplazione senza alcuna interruzione, è il procedimento per neutralizzare
le onde del sentimento, liberando l’ego dal suo coinvolgimento con esse.
Indipendentemente da quale tecnica si decida di praticare, la cosa più importante è che si
porti avanti la pratica con costanza e pazienza.
È importante essere consapevole di questo, lavorare su sé stessi e disciplinare la mente è
la cosa più difficile al mondo.
Quando cominciamo a meditare molte cose accadono dentro di noi. Infatti, un altro
meccanismo che bisogna attivare oltre alla pazienza e alla costanza è la forza di volontà.
Nel cervello questa si attiva come un muscolo, la forza di volontà può essere allenata.
Ogni volta che prendiamo una decisione in accordo con lo scopo da raggiungere, la mente
si rafforza e migliora nel prendere le decisioni future. Per esempio, ogni volta che decido di
sedermi per iniziare a meditare sto allenando la mia forza di volontà. Potrà sembrare un
sacrificio ma sentendomi meglio fisicamente e mentalmente continuerò a farlo. Alcuni
psicologi descrivono che nel cervello esistono tre sistemi che influiscono sulla forza di
volontà:
1. Il sistema del “farò”, ogni volta che mi propongo di fare qualcosa.
2. Il sistema del “non farò”, serve per resistere alle tentazioni che quotidianamente
abbiamo.
3. Il sistema del “voglio”, serve per creare nella mente l’immagine di quello che
vogliamo raggiungere.
Praticare la meditazione su un tappetino sarà indispensabile per disciplinare la mente e
sviluppare la consapevolezza, ma sarà considerato un allenamento per poi praticare la
meditazione nella vita quotidiana. Cercare quindi di essere presente e consapevoli durante
tutto l’arco della giornata: quando mangiamo (possiamo percepire tutti i sapori e le azioni
nella bocca), quando camminiamo (siamo concentrati sui movimenti del corpo), quando
insorge un’emozione o quando ascoltiamo qualcuno (sentiamo cosa provoca sul nostro
corpo).
La quotidianità è piena di momenti in cui possiamo esercitarci. La pratica dunque ci
accompagna verso la consapevolezza e come descrive Patanjali ci tiene lontani
dall’ignoranza.
Patanjaili negli Yoga Sutra lo descrive nei KLESHA. Nei Klesha cinque sono le afflizioni che
frenano lo sviluppo spirituale dell’uomo. La prima, come già citata è l’ignoranza
(Avidya) che genera a cascata tutte le altre afflizioni, e non è la mancanza di preparazione
scolastica o un difetto di comportamento, ma ignoranza della realtà autentica dell’uomo e
della vita stessa.
L’uomo purtroppo, accecato dalle proprie personali frustrazioni, tende inevitabilmente ad
attribuire alla vita colpe, fallimenti, sfortune, incomprensibili crudeltà cosmiche, anziché
alla propria incapacità di comprenderne il senso. Da questa limitata e distorta visione delle
cose, deriva l’illusione (Asmita).
Grazie all’illusione l’uomo è in grado solo di organizzare la propria esistenza in funzione
delle varie esperienze compiute attraverso gli organi di senso. L’individuo sente di essere
soltanto un corpo, una mente, un nome, un codice fiscale, i propri beni, la propria carriera,
tutto fuorché la propria natura reale, l’essenza, il divino che noi siamo,” l’io sono quello (Ta
Twam Asi)”.
Con “quello” si intende, il principio originario, quello da cui tutto proviene e a cui tutto
ritorna. È il grande Architetto da cui è scaturito questo meraviglioso ed eterno universo di
cui siamo parte integrante. Ma la paura di non vedere gratificato o sminuito il proprio “io”
fa sorgere un’ennesima afflizione e cioè l’attaccamento (Raga).
L’attaccamento alle cose, alle persone, alla passione, al piacere, alla soddisfazione dei
propri desideri ma anche alle esperienze gratificanti che ci fanno sentire vivi e attivi e che
poi non riusciamo più farne a meno. Quindi nasce la frustrazione di non poter replicare
all’infinito quelle particolari condizioni, che in momenti precedenti, ci hanno tanto
appagato.
Si potrebbe obiettare che tutto questo è la vita stessa e se mancano desiderio, passione,
curiosità, a che cosa ci si può attaccare? Si tratta infatti di una pratica difficile.
Quando le passioni predominano il pensiero, ogni volta, di fronte a una scelta,
bisognerebbe chiedersi: ha valore questa opzione per la mia realizzazione?
È solo grazie alla consapevolezza interiore e alla meditazione, in assenza di una risposta
affermativa senza dubbi, né perplessità verrà spontaneo ripetersi mentalmente che “non è
questo ciò che mi serve e non è nemmeno quello” ovvero “non è questo, non è quello”.
Nello Yoga questa condizione è chiamata “Neti Neti”. Avendo così stabilito i nostri obiettivi
spirituali con chiarezza e onestà, ci verrà facile, nel tempo, individuare nella folla
disordinata dei pensieri che assediano senza sosta la nostra mente, quelli che meritano
accoglienza e accudimento e quelli che invece, invadenti, devono essere scartati.
Ma c’è un altro elemento che deriva dall’illusione, la repulsione (Dvesha) che è quello che i
bambini definiscono con l’espressione “che schifo”. È l’antitesi dell’amore, la ripugnanza,
l’antipatia e la paura.
È una forma di repulsione dettata dalla paura del dolore, dell’esperienza sgradevole e che
porta una fredda e rigida chiusura alle proposte della vita.
Dvesha rappresenta il sentimento di ostilità, di collera e desiderio di distruzione o ira nei
confronti della sofferenza (Duhkha) o dei mezzi che la provocano da parte di colui che l’ha
sperimentata e preceduta dal ricordo di essa.
Dvesha è figlia dell’ignoranza (Avidya), dell’illusione (Asmita), della passione (Raga) e per
ultimo della paura della morte (Abhimivesha). Abhimivesha è l’ultimo anello di questa
catena, che non è altro che il “desiderio di vivere”.
Quest’attaccamento tocca tutti. Dai poveri di spirito ai sapienti. Solo colui che ha superato
tutto, l’ignoranza, le illusioni, gli attaccamenti e le repulsioni, da perfetto saggio (Vivekin),
si appresta ad affrontare la paura della morte.
Viveka cioè il buon giudizio, ci impone questo percorso per accettare la morte. La morte
incute timore, è vista come la fine di un’esistenza, la separazione da tutto, dai nostri affetti
e dalle cose più care. Nemmeno un atto di fede o l’idea di una resurrezione ci consola.
Ma Patanjali nei suoi Yoga Sutra mette bene in evidenza che il più importante nodo da
sciogliere sono l’attrazione e la repulsione, che costituiscono per il praticante Yoga la
consapevolezza di dover alimentare la conoscenza, attraverso la ricerca della verità che si
rileva dunque nella pratica della meditazione.
Così la morte appare per quello che è: un evento di trasformazione.
Noi non siamo corpi fisici, ma la nostra vera natura è eterna, trascende il piano fisico e il
corpo è solo un luogo in cui la nostra anima eterna viene ospitata per un tempo limitato.
8. SAMADHI
Ed eccoci alla fine del percorso del viaggio verso la realizzazione. Il Samadhi, che in
sanscrito significa “mente fermamente stabilita”, è l’ottavo passo descritto da Patanjali.
Nello stato di Samadhi si verifica un’unione consapevole con l’oggetto della
contemplazione e una completa cessazione dei movimenti della mente. Superato lo stato
di separazione tra l’ego e il sé, si sperimenta la propria natura divina e si conosce la verità
suprema.
Descritta come la fase dell’estasi e dell’illuminazione, il Samadhi è la connessione con il
divino. È la connessione al tutto. È sentirsi uno con l’universo. Il meditatore trascende sé
stesso e diventa la goccia del mare che non è separata dal resto, ma è un tutt’uno in
continuo fluire. Il Samadhi non è altro che la liberazione!
Patanjali scrisse: “Yoga (unità) avviene quando non esistono più “né io e né tu”, esiste
solamente una coscienza che è consapevole del tutto.”
“ LO YOGA È UNA LUCE CHE UNA VOLTA ACCESA NON SI SPEGNE MAI PIÙ. PIÙ INTENSA È LA TUA PRATICA
PIÙ LUMINOSA È LA LUCE”( Iyengar).
Ringrazio i miei INSEGNANTI che con la loro UNICITÀ ed ESPERIENZA hanno permesso tanto
entusiasmo durante tutto il percorso formativo e ringrazio le mie compagne e compagni…perché
senza la loro presenza tutto questo non sarebbe mai iniziato. Ognuno di loro ha semplicemente e
immensamente arricchito la mia vita, con la propria vita…Terminano i due anni …ma è solo l’inizio
di un ennesimo cammino…
Ylenia